19 novembre 2008

Metà e Metà : Testo critico di Paolo Balmas

Nella società postindustriale, lo sappiamo fin troppo bene, la ricerca estetica tende sempre più a coincidere con la ricerca del “successo”, un traguardo quantomai ambiguo che rende problematica ogni distinzione volta a separare il valore dal disvalore.
Ad argomenti che un tempo si sarebbero potuti bollare con sicurezza come meramente quantitativi ( quotazioni di un artista, numero dei visitatori di una mostra, volume della risposta stampa ottenuta da un evento) è divenuto oramai quasi impossibile opporne altri di natura qualitativa senza attirarsi accuse di settarismo elitario, supponenza ideologica e via dicendo.
Nella stessa direzione il tradizionale lavoro del critico che in base ad una sua proiezione culturale, teoricamente giustificata, cerca di stabilire cosa sia candidato a passare alla storia e cosa no, viene sempre più tacciato di ingenuità, presunzione o arretratezza mentre al suo posto viene esaltato quello del tecnico capace di imporre sulla scena mediatica un determinato prodotto in qualche modo già concepito per sostenere l’urto dei riflettori.
Le immagini che emergono da questo clima, tuttavia, hanno, immancabilmente, lo stesso difetto: reggono l’urto dei riflettori, ma non quello del tempo. Il loro valore cioè, non essendo supportato da una autentica decantazione linguistico-conoscitiva, ha bisogno di essere sostenuto sempre con lo stesso dispiego di energie degli esordi, sicché assistiamo allo strano fenomeno per cui in un epoca mai paga di celebrare la fine della storia si moltiplicano a dismisura i musei, (sia pure di arte contemporanea), il tutto nella speranza che il pubblico, chiamato a consumarne le proposte, si limiti a convalidarle con la sua assiduità senza mai rilevare la contraddizione, senza mai domandarsi fino a quando si potrà continuare a tesaurizzare evitando di esplicitare i criteri seguiti, a sostituire il potere esterno della politica e dell’economia a quello interno del lavoro artistico e del pensiero che lo sostiene.
Storditi, come siamo, dalla risonanza della lotta agguerritissima tra opere-prodotto strategicamente attrezzate fino all’inverosimile per togliersi spazio a vicenda e conquistarsi i favori dei media non ci capita quasi più di riflettere sul fatto che la dimensione estetica è sempre stata considerata un valore portante anche da tutti coloro che invece dall’organizzazione neocapitalistica si sforzano da decenni di tirarsi fuori attraverso esperienze di riprogettazione della vita stessa, pratiche di utopia realizzata innestate nel tessuto sociale come modelli di differenza da difendere hic et nunc in un’ottica di lotta che ha progressivamente abbandonato l’attesa della “rivoluzione dietro l’angolo” per consolidarsi attraverso il lavoro sul territorio, la controinformazione diffusa, la costruzione di un’economia alternativa, il rifiuto del modello familistico-consumistico, la solidarietà con le frange dell’ emarginazione, l’appropriazione diretta degli spazi di verde e di socializzazione necessari alla vita di quartiere e via dicendo.
La speranza di trovare all’interno delle varie realtà che fanno capo a questo tipo di atteggiamento, la mitica e tanto discussa espressione diretta della creatività proletaria, a onor del vero, si è più volte affacciata nella mente degli addetti ai lavori del “sistema dell’arte”, ma è rimasta, in qualche modo, sempre frustrata in quanto immancabilmente basata su aspettative indebite e filtri ideologici inadeguati. Detto in altre parole sull’attesa di un qualcosa in grado di contrastare la iperspecializzata e superconcorrenziale arte legata al mercato con i suoi stessi mezzi e sul suo stesso terreno. Con segni altrettanto levigati e splendenti, sofisticati e spettacolari, smagati e pervasivi.
I tre artisti, appartenenti al gruppo Traidentiti cui dobbiamo l’installazione site-specific “Metà e Metà”, presente in questi giorni da EMBRICE, non sono caduti in un simile errore pur essendo stati esposti a lungo, per più di otto mesi al fascino tutto particolare dei non pochi interventi creativi individuabili all’interno del più antico e prestigioso Centro Sociale Autogestito di Roma: il Forte Prenestino.
L’avvicinamento al Forte, per Sergio Maria Capilupi, Christian Ciampoli e Silvia Sbordoni è avvenuto in maniera del tutto consequenziale rispetto ad un progetto di ricerca più vasto basato sull’idea di fondo di una mappatura delle perifierie romane in grado di farne emergere, attraverso una immaginaria riconnessione in continuum, quelle potenzialità e caratteristiche che ne fanno il terreno di coltura ideale per una spinta al rinnovamento della progettualità artistica inversamente proporzionale allo squallore architettonico e alla depauperazione semantica che le pervade.
In altre parole , il Forte, di per se stesso emblema di separatezza dal mondo circostante e di difesa di ciò che è al suo interno, li attraeva sotto un duplice aspetto, quello di residuo di un’attività militare (con tutti i suoi connotati di repressività) mai veramente espletata in quanto resa ben presto obsoleta dallo sviluppo caotico della capitale. e quello di luogo recintato utilizzato oggi paradossalmente proprio a protezione di un esperimento antirepressivo e antagonista rispetto allo stesso sviluppo caotico di cui si è detto, sviluppo che poi, a guardar bene, è a sua volta, solo il rovescio della medaglia di una pianificazione altra ed occulta, quella dello sfruttamento storico della migrazione interna italiana e della instaurazione di una speculazione edilizia classista e selettiva nelle aree costruibili dell’agro romano.
I contatti dei nostri artisti con gli occupanti e le persone attive all’interno del centro sociale hanno portato, però. ad un certo punto ad una svolta inaspettata in un lavoro inizialmente concepito soprattutto come esplorazione del materiale a valenza estetica reperibile in loco e riflessione su di esso operata secondo tecniche simili a quelle della catalogazione museale, tecniche, cioè, volutamente estranee al modello di vita che aveva presieduto alla sua formazione e stratificazione.
Capilupi e Ciampoli, infatti, avendo ricevuto nel febbraio ultimo scorso l’invito, dai responsabili del laboratorio teatrale interno al Forte, ad “allestire il Foier del teatro tentando di ottenere un ambiente più gradevole per il passaggio e l’attesa del pubblico”, hanno cominciato a prendere in considerazione un’idea molto più stimolante di quella iniziale. Se prima il loro intento era solo quello di far reagire il materiale trovato sottoponendolo ad un inquadramento improprio (cioè tipico di una società gerarchizzata che ha continuamente bisogno di tesaurizzare la propria arte per poi poter procedere ad estetizzare i propri beni di consumo), con la finalità di saggiarne una qualche differenza che, a livello iconografico o stilistico come di consueto stentava a venir fuori, ora tale intento poteva evolversi in qualcos'altro, qualcosa di simile ad una prima sezione di un museo vivente interno al Forte stesso e non estraneo ai suoi principi ispiratori.
Detto in altre parole le immagini scaturite dalla indagine di Ciampoli e Capilupi e impaginate e riadattate dalla Sbordoni, come ad es. quelle dei numerosi cani senza padrone integrati nella comunità o delle diverse reinterpretazioni date nel tempo dai frequentatori del centro agli anelli metallici infissi nei muri della fortezza, potevano finalmente divenire sotto gli auspici di un ironico e improbabile decoro borghese un ulteriore momento di consapevolezza della storia dell’ occupazione, una storia che, in una comunità che non pratica la conservazione a fini di totalizzazione identitaria, nessuno si preoccupa, per definizione, di fissare al di fuori dei limiti e delle modalità di esistenza di una memoria collettiva in continua evoluzione. Allo stesso modo alcuni oggetti come delle banali sedie di materiale plastico stampato, ridipinte chissà quando e chissà perché con una vistosa e spiritosa texture simile all’ingrandimento della trama di una stuoia colorata, o una grande tavola a suo tempo incisa per produrre un manifesto con immagini di prospettive urbane incastrate tra loro, reinterpretati rispettivamente come poltroncine da sala d’attesa e pannello decorativo parietale, hanno mostrato una inattesa vitalità estetica sopravvissuta al loro abbandono e come rigenerata dal travaso che le ha condotte da una forma di dispersione nell’ambiente. con conseguente percezione distratta, ad una modalità di fruizione specifica. Per quanto riguarda poi il rilievo di graffiti e pitture murali opera dei diversi gruppi di animazione visiva che nel tempo hanno lavorato al forte anche qui i nostri artisti hanno trovato lo stimolo per tentare nuove forme di sezionamento e ricomposizione ispirate alla funzione arredativa di certa scultura moderna di ascendenza Pop o giocosamente Minimale.
A questo esperimento, indubbiamente riuscito e accettato di buon grado dai frequentatori del Forte Prenestino, Capilupi, Ciampoli e Sbordoni avevano già pensato di dare come titolo “Metà e Metà” intendendo così rimarcare che l’uso di griglie concettuali provenienti dalla civiltà neocosumistica e solo apparentemente liberale esterna al Forte avevano consentito di prelevare qualcosa di ciò che l’esperienza di questo Centro Sociale ha prodotto nel tempo e di ripresentarlo all’interno del Centro stesso sotto un nuovo aspetto che certamente non poteva conciliare quelle griglie con il modo diverso di concepire l’esperienza estetica proprio degli occupanti, ma poteva valere proprio grazie a questa inconciliabilità ad estrapolare da dei reperti non tesaurizzati ed in parte dismessi il loro più autentico significato estetico sotto forma di capacità di catalizzare e metabolizzare energie creative diffuse e non sottoposte ai vincoli del cronologico o dell’autoriale.
Ora nel ripresentare non tanto quegli stessi oggetti quanto un loro riadattamento o una loro modellizzazione nello spazio espositivo di Embrice, cioè nel bel mezzo della realtà urbana neoconsumista ed illiberale di una capitale sgangherata come Roma, i tre artisti hanno ritenuto opportuno mantenere lo stesso titolo, in quanto l’inconciliabilità tra reperti iniziali e loro presentazione si ripresenta ancora e si ripropone ancora di mettere in moto l’immaginazione del pubblico impegnandolo a cercare di ricostruire, questa volta, con moto inverso, la vita e i trascorsi di un luogo che si trova sì all’interno della città ma tenta con inesausta volontà politica di resistere alla sua logica.


Paolo Balmas